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La passione di Roberto per il cinema Una delle grandi passioni di Roberto era il cinema, che nel 2002 l'aveva portato anche a scrivere il libro "Tempi moderni - l'immagine del lavoro nel cinema" (A. Sismondi - R. Tassi, 110 p., Effatà Editrice). Lo vogliamo ricordare anche attraverso la profonda umanità espressa dalle sue recensioni contenute in questo libro (per chi lo desidera in sede sono ancora disponibili copie del volume).
OVOSODO
Regia: Paolo Virzì(Italia 1997) Soggetto: Furio Scarpelli, Paolo Virzì Sceneggiatura: Francesco Bruni, Furio Scarpelli, Paolo Virzì Montaggio: Jacopo Quadri Fotografia: Italo Petriccione Musiche: Battista Lena, Snaporaz Distribuzione: Cecchi Gori Distribuzione Durata: 99 min. Interpreti: Salvatore Barbato (Mirko), Monica Brachini (Mara), Nicoletta Braschi (Professoressa Giovanna Fornari ), Matteo Campus (Piero a 7 anni), Marco Cocci (Tommaso), Alessio Fantozzi ( Ivanone), Pietro Fornaciari (Nedo), Edoardo Gabriellini (Piero), Malcom Lunghi (Piero a 13 anni), Daniela Marozzi (Luana), Regina Orioli (Lisa), Claudia Pandolfi (Susy), Enrica Pandolfi (Susy a 13 anni), Barbara Scoppa (Bianca). Livorno, nel popolare quartiere chiamato Ovosodo, nasce Piero Mansani, figlio di un ex portuale che entra ed esce da galera, perde la madre che era bambino, crescendo insieme al fratello ritardato e ad una giovane matrigna che sogna la felicità di una vita da principessa. Piero stringerà un profondo e duraturo rapporto d’amicizia con Giovanna, la sua insegnante di lettere. Al liceo Piero incontrerà Tommaso, ragazzo dalla personalità bizzarra, figlio di un ricco industriale di Livorno. Grazie a lui verrà a contatto con una nuova vita. Passano gli anni e i sogni della gioventù lasciano il posto alla realtà. Finita la scuola, Piero viene assunto nella stessa fabbrica del padre di Tommaso che intanto parte per L’America. Nel frattempo Piero riprende i rapporti con Susy ragazza di lui innamorata fin da bambina. Quando gli dice di essere incinta i due si sposano. Piero è ormai un uomo. Per raccontare la storia di Piero, Paolo Virzì sceglie Ovosodo, suo quartiere natale. La Livorno che viene presentata è una città inedita, fatta di quartieri esclusivi ma anche di rioni popolari inquinati dalle grandi industrie. Ovosodo è un quartiere dove si vive di prepotenza e virilità, e questo porta Piero ad un disagio legato l’impossibilità di esprimere la propria natura poetica e sensibile. In un suo tema, letto in classe dalla professoressa Fornari (una brillante Nicoletta Braschi) Piero scrive: “…il cosmo non è a misura d’uomo, e che costui, l’uomo, deve adattarsi ad esso con scarsi risultati, tranne i più privilegiati dal potere e dal mercato”. Segue l’entusiastico commento della professoressa: “… la capacità dello scrittore di unire all’invenzione romanzesca il realismo della descrizione. Di sposare cioè al divertimento del racconto le verità anche drammatiche delle cose della vita”. Per bocca dei suoi personaggi Virzì riesce a sintetizzare la filosofia che sta dietro a questo film. Lo sfondo di una situazione famigliare disastrata, viene raccontata con i toni della commedia all’italiana, descrivendo, assolvendo e sorridendo delle situazioni e dei personaggi. Alcuni di questi sono davvero spassosi nella loro caratterizzazione, facendo davvero passare in secondo piano il degrado del quartiere in cui vivono, sempre mantenendo una visione estremamente verosimile. Ma più di tutti saranno Tommaso e la professoressa Fornari, le persone che influenzeranno la vita di Piero. La professoressa lo aiuterà ad entrare nel prestigioso liceo classico dei quartieri alti, Tommaso gli farà scoprire un mondo a lui sconosciuto, fatto di spinelli, comandanti Marcos, puzza di piedi e di ragazze… Lisa, cugina di Tommaso farà perdere la testa a Piero, il quale trascurerà la scuola tanto da fallire l’esame di maturità, ma soprattutto non capirà quanto Susy ragazza del suo condominio, l’abbia amato per tutti questi anni. Gli anni passano e a differenza di Tommaso, Piero non si può permettere di protrarre la propria adolescenza, quindi decide di cercarsi un lavoro accontentandosi di lavorare come operaio nella fabbrica del padre di Tommaso. Dalla relazione con Susy nascerà un bimbo, e subito dopo ci sarà il matrimonio con la prospettiva di una vita né bella né brutta, ma come un uovo sodo che non va né su né giù, che ormai fa compagnia come un vecchio amico. Dopo i film “la bella vita” e “Ferie d’agosto”, Virzì conferma la sua abilità nel raccontare storie semplici che narrano la vita degli italiani comuni, rilanciando il genere della commedia all’italiana imprimendo però un ritmo assai più veloce grazie ad un montaggio dinamico ed al commento “fuori campo” del protagonista. L’abilità di Virzì la si riscontra nel saper proporre interrogativi anche inquietanti, attraverso la caratterizzazione dei personaggi e l’espressione dei loro pensieri. Quando Lisa afferma: “…la felicità è la malattia degli imbecilli” mette in discussione non solo la sua vita ma anche la nostra, rendendo attiva la visione del film da parte dello spettatore. Premio della giuria alla Mostra di Venezia 1997, David di Donatello 1998 per Nicoletta Braschi, miglior attrice non protagonista.
LA CLASSE OPERAIA VA IN PARADISO
Regia: Elio Petri(Italia 1971) Soggetto e sceneggiatura: Elio Petri, Ugo Pirrò Fotografia: Luigi Kuweiller Musica: Ennio Morricone Montaggio: Ruggero Mastroianni Distribuzione: Euro international film – Domovideo, De Agostini Durata: 125 min Interpreti: Gian Maria Volontè (Lulù Massa), Renata Zamengo (Maria), Salvo Randone (Militania), Gino Pernica (il sindacalista), Mariangela Melato ( Lidia), Ezio Marano ( il cronometrista), Giuseppe Fortis ( Valli), Luigi Diberti ( Bassi), Donato Castellaneta (Marx), Adriano amidei Migliano ( il tecnico), Mietta albertini ( Adalgisa). Lulù Massa è un operaio in una gran fabbrica del nord, con una macchina una compagna e tanti oggetti inutili dentro casa. Lavora su di un tornio semiautomatico, ed è una sorta di campione del cottimo, tanto da indurre la dirigenza ad imporre i suoi tempi anche agli altri operai. Malvisto dai colleghi a lontano dal sindacato Lulù mette in discussione la sua vita quando il tornio gli trancia un dito. Tutti i giorni una voce all’altoparlante accoglie in fabbrica Lulù ed i suoi colleghi invitandoli a trattare con amore la macchina sulla quale dovranno lavorare per tutto il giorno, per salvaguardare la loro sicurezza e la produttività. Di contro gli operai mostrano il loro “amore” in modo differente, chi contemplando la foto di una donna nuda, chi facendosi il segno della croce e chi in gesto di disprezzo sputa contro il macchinario. Lulù Massa ha un solo pensiero, produrre e rimanere concentrato sul ritmo per raggiungere la produzione che il lavoro a “cottimo” gli impone, tutto il resto per lui non conta. Lo stato d’alienazione di Lulù è tale da indurlo a pensare come se il suo organismo fosse organizzato come una fabbrica, dove la testa è la dirigenza e lo stomaco una macchina che schiaccia il cibo… Il suo isolamento dai colleghi a causa dell’adeguamento dei tempi lavoro della fabbrica ai suoi, non lo tocca e non capisce le critiche dei colleghi. D’altra parte però neanche Lulù è contento di se stesso, produce, consuma, si ammazza di fatica tanto da non avere più la forza d’avere rapporti fisici con la donna con cui vive. Tuttavia, anche se le visite ad un suo amico operaio finito in manicomio lo riempiono di sconforto, continua a mantenere i suoi massacranti tempi di lavoro, finche un giorno ci rimette un dito. Il suo atteggiamento muta completamente, e si schiera con un gruppo di studenti estremisti a favore di uno sciopero ad oltranza contro il meccanismo del cottimo. Scoppiano i tafferugli con la polizia, e l’azienda deciderà quindi di licenziarlo. La fotografia di Kuveiller sottolinea con i vetri gialli degli uffici della dirigenza, e la luce azzurrina del “focolare” domestico (la televisione) i luoghi nei quali Lulù incontra le critiche che fino ad allora non aveva dato conto, a differenza delle luci della fabbrica rimaste sempre uguali, luogo dove invece trova comunque la solidarietà dei colleghi. Sempre crucciato dalla possibilità di essere diventato pazzo, Lulù pensa alle provocazioni degli studenti, dalle ore di lavoro rubate alla propria vita, al proletario che tenta di inserirsi nella società dei consumi proposta dalla televisione. Il sindacato continuerà a stagli vicino e grazie ad una contrattazione riuscirà a farlo riassumere in ditta. Utilizzando strepitosi monologhi-delirio dell’operaio Massa, Petri firma una delle opere degli anni ’70 che contribuirono ad analizzare la contraddizione dell’operaio comunista abbagliato da sogno del capitale. Sempre utilizzando i toni della commedia all’italiana, vengono accennati altri temi “caldi” di quel periodo, come i manicomi riservati solo ai poveri, o il tema ancora attualissimo dell’unità sindacale, ma non solo. In questo film viene mostrato come sia difficile far prendere coscienza al proletario l’importanza dell’unità dei lavoratori e come sia facile invece fare il gioco dei “padroni”, dividendosi e facendo un’inutile guerra fra “poveri”, non a caso Petri e lo stesso Volontè vennero criticati dalle sinistri di quel periodo. Il titolo si riferisce ad un ipotetico “muro” da abbattere oltre il quale Lulù, riassunto alla catena di montaggio, favoleggia di trovare il paradiso per la classe operaia, di contro il film si conclude con un fermo immagine di un operaio carrellista dietro il quale si vede in secondo piano disegnata sul muro, una mano enorme con il dito indice rivolto verso il basso, ad indicare la realtà della classe operaia. David di Donatello e Palma d’oro a Cannes come miglior film.
AMERICANI
Regia: James Foley(Usa 1992) Soggeto e sceneggiatura: David Mamet Fotografia: Juan Ruiz Anchia Musiche: James Newton Howard Montaggio: Howard Smith Distribuzione: Life International Durata: 101 Interpreti: Al Pacino (Ricky Roma), Jack Lemmon (Shelley Levene), Alec Baldwin (Blake), Alan Arkin (George Aaronow), Ed Harrris (Dave Moss), Bruce Altman (Mr. Spannel), Paul Butler (poliziotto), Lori Tan Chinn (guardarobiera), Jude Cicolella (detective), Jonathan Pryce (James Lingk), Kevin Spacey (Jhon Williamson). In una piccola agenzia immobiliare, la direzione decide di ridurre il numero di dipendenti. Per stabilire chi licenziare viene messa in palio un’automobile per il miglior venditore, un “set” di coltelli per il secondo classificato ed il licenziamento per tutti gli altri. La corsa alla vendita sarà frenetica ed ogni mezzo lecito; scorrettezze e colpi bassi compresi. La tensione è al massimo, fino a quando qualcuno, ruba i preziosi contatti custoditi nella cassaforte dell’ufficio… Tratto da una commedia teatrale di David Mamet (anche sceneggiatore del film), Americani descrive l’altra faccia del sogno americano, e tutti i compromessi (ed i fallimenti) che si consumano nel suo nome. Fin da subito colpisce il cast di attori. Al Pacino, Jack Lemmon, Alec Daldwin, Alan Arkin, Ed Harris ed un allora sconosciuto Kevin Spacey; tutti coprotagonisti come raramente capita. La struttura di quest’opera è marcatamente teatrale, quasi tutte le scene si sviluppano in ambienti chiusi (ufficio, ristorante, auto), e non si parla d’altro che di vendere lotti di terreno. A differenza di molto altri film, il primo colpo di scena si manifesta subito, e da lì si sviluppa tutta la storia. Alla notizia della “selezione” del personale, ciascun venditore si muove a suo modo: Ricky Roma ostenta sicurezza con il suo cliente- “allocco”, Shelly Levene martella senza tregua i suoi miseri contatti, Dave Moss favoleggia un futuro in proprio o alla concorrenza, mentre Aaronow non fa altro che piangersi addosso. Nell’ampia fase centrale del film, si sviluppano le sfumature dei caratteri, l’ambiente è solo maschile e la virilità è l’unico strumento di difesa. Implicitamente è la società americana ad essere descritta (la legge del più forte), i suoi miti (la competizione esasperata), i suoi eccessi (o sei vincente o sei fuori) ed il degrado morale che questi eccessi comportano (la corruzione, la menzogna, le minacce, le umiliazioni). Nel finale Foley dirige con grande abilità una serie di colpi di scena a catena capaci di ribaltare una ad una tutte le situazioni fino al quel momento descritte mostrando la sconfitta più o meno cocente di tutti i protagonisti. La robusta sceneggiatura e tutti i personaggi che vi ruotano intorno, fanno di Americani un film carico di tensione ed appassionante fin dal primo fotogramma. La critica alla società americana è durissima ma il non-finale in qualche modo evita di giungere a facili conclusioni moralistiche o ideologiche; non a caso dopo tutto lo stress, gli insulti e le umiliazioni, Aaronow meccanicamente impreca sul lavoro di venditore ed alza la cornetta nella speranza di chiudere un contratto, con la stessa indifferenza con cui il treno (o forse la società americana) di li a poco ci sfreccerà sotto gli occhi.
BILLY ELLIOT
Regia: Stephen Doldery(Gran Bretagna, Francia 2000) Soggetto e sceneggiatura: Lee Hall Fotografia: Brian Tufano Musica: Stephen Warbeck Montaggio: John Wilson Interpreti: Jamie Bell (Billy Elliot), Julie Walters (la signora Wiekinson), Jamie Draven (Tony Elliot), Gary Lewis (Jackie Elliot il padre), Jean Neywood (la nonna), Jamine Birkett (la madre di Billy). Contea di Durham, nel nord dell’Inghilterra, 1984. L’undicenne Billy vive con il padre, il fratello e la nonna. Il padre è rimasto vedovo da poco ed assieme al figlio più grande Tony , sono in sciopero contro le decisioni del governo Tatcher a proposito della chiusura delle miniere di carbone dove lavorano. Frequentando la palestra di boxe, il piccolo Billy scopre casualmente di avere la passione per la danza. Dapprima il padre si oppone ma in seguito cede e grazie alla colletta dei colleghi riuscirà a pagare l’iscrizione alla Royal Dance Accademy. I veri protagonisti di questo Billy Elliot sono fondamentalmente due: Il contesto sociale (gli storici scioperi contro la chiusura delle miniere) e la metafora del pulcino goffo e sfortunato che diventa cigno. Il contesto sociale è quello di una cittadina del nord dell’Inghilterra, che si ritrova a fare i conti con le decisioni della Tatcher. Le ciminiere onnipresenti (in alcuni casi inquadrano letteralmente i personaggi) sono il destino degli abitanti della cittadina. La miniera rappresenta una realtà sociale ormai cadente. e gli abitanti paradossalmente si trovano a lottare per un lavoro massacrante, ma allo stesso tempo loro unica “ricchezza”. Casa, miniera, palestra. Questo è ciò che costituisce la vita dei minatori. Billy scopre la passione per la danza, ma oltre ad essere deriso non verrà capito nè dal fratello, roso dalla rabbia e dall’alcool, né dal padre aggrappato a quelle poche certezze (o illusioni) rimaste ed ancora profondamente scosso dalla morte della moglie. Da questa condizione di pulcino, Billy grazie alla sua ostinazione ed alle lezioni della maestra di danza incontrata in palestra, riuscirà ad “elevarsi a cigno”, ed essere compreso da un padre accecato dalla disperazione di una lotta senza speranza. Grazie alla colletta dei colleghi, all’aiuto della maestra di danza, ed alla fiducia del padre, Il piccolo Billy riuscirà a superare il provino di ammissione alla prestigiosa Royal Dance Accademy di Londra. Londra, traguardo di Billy (William per i nuovi maestri) che “fugge” dal suo destino di minatore e completerà la definitiva trasformazione in cigno. William Elliot ormai adulto sarà protagonista di una importante rappresentazione del ”lago dei cigni” sotto gli occhi del fratello e del padre, affascinati ed orgogliosi. Ma la realtà della miniera è davvero così infernale?, o forse semplicemente le lotte hanno fatto esplodere tutto il malessere e l’abbrutimento della condizione del proletariato inglese dei primi anni ottanta? La pecca del film probabilmente è tutta qui, il contesto sociale serve solo a dipingere una condizione infernale senza scendere nell’analisi politica del perchè e del per come la Tatcher abbia voluto chiudere le miniere. Un’analisi di questo livello sarebbe stata troppo Ken Loach, e probabilmente non era lo scopo del film.
ROSETTA
Regia: Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne(Belgio, Francia 1999) Soggetto e sceneggiatura: Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne Fotografia: Alain Marcoen Montaggio: Marie Helene Dozo Distribuzione: Key films Durata: 90 Interpreti: Emilie Duquenne (Rosetta), Anne Yernaux (madre), Olivier Gourmet (padrone), Fabrizio Rongione (Riquet) Rosetta, giovane disoccupata, vive in uno squallido campeggio alla periferia di Liegi con la madre alcolista. Il suo obiettivo è trovare un lavoro sicuro che le permetta di vivere una vita dignitosa uscendo dalla sua condizione di miseria ed emarginazione. Rosetta non ci sta a vivere nel degrado del campeggio di periferia, con una madre ormai sfatta dall’alcolismo a dall’apatia. Rosetta vuole sollevarsi da questa situazione trovando un lavoro, amici che le sappiano dare affetto, una casa decente, una vita “normale”. Per tutto questo Rosetta non smette mai di lottare, la sua è una lotta frenetica senza un attimo di respiro, per tutta la durata del film corre, sopporta il freddo, la fame, i dolori mestruali; la sua povertà non gli consente nessun lusso e sarà costretta a pescare di frodo per mangiare, a vendere i propri vestiti per racimolare soldi utili a lei ed alla madre. La nostra protagonista (appare praticamente in tutte le sequenze del film), riesce e trovare lavoro in un panificio dove lavora Riquet, un giovane commesso che fa la cresta sulle vendite delle cialde. Il titolare è anch’egli un lavoratore che deve fare i conti con la fatica, e capisce che licenziare Rosetta per far lavorare il figlio non è leale, ma è costretto a farlo. Alla notizia Rosetta si oppone con una rabbia dettata dall’istinto di sopravvivenza, quell’istinto che ti spinge ad aggrapparti alla vita che hai difendendo quel poco che ti rimane, anche a scopo di fare la spia. Per riavere il posto decide di denunciare Riquet, suo collega ed amico, lo stesso che la aveva ospitata in casa sua dandogli quel poco d’affetto fraterno di cui ha bisogno. E’ riassunta, lavora al chiosco maneggiando i soldi che prima maneggiava Riquet, anche lei potrebbe fare la cresta sulle vendite, ma non sarebbe onesto nei confronti del titolare, e di se stessa. Questa coerenza la spingerà a licenziarsi, perché quel lavoro non se lo è conquistato in modo “normale” ma solo grazie ad una spiata. Disoccupata, una amico perso e una madre alcolizzata; questa è la realtà di Rosetta. Si rende conto di essere risucchiata nel “buco nero” nel quale sperava di non cadere. Persa e rassegnata nell’amaro inferno della sua delusine, decide di smettere di lottare usando il gas, ma la bombola finisce. Andando a prendere la nuova bombola trova Riqet. Rosetta non sì da pace per ciò che ha fatto nei suoi confronti. Trascinando la bombola come se fosse la sua croce, cade implorando il perdono di Riquet guardandolo negli occhi e capendo di aver trovato una persona simile a lei capace di solidarietà. Con quest’opera seconda, i fratelli Dardenne non rinnegano lo stile docomentaristico da cui provengono, riuscendo a creare un film-manifesto sulla nuova povertà europera, provocata dall’emarginazione sociale, dal degrado delle periferie e dalla disoccupazione. Al di sopra d’ogni ideologia e senza mai cadere in una facile retorica antiborghese, i fratelli Dardenne scelgono una fotografia naturale ed il suono in presa diretta senza un commento musicale, l’unica musica che si sente è la rudimentale registrazione del complesso di Riquet, coerente con la spartana ed iper-realistica struttura del film. La storia è raccontata più con le azione che non con i dialoghi per altro calibratissimi ed essenziali. Cinepresa a mano che inquadra la protagonista quasi sempre alle spalle, come se fosse la sua anima che costantemente la osserva e la sprona nella sua ostinazione. Meritata palma d’oro a Cannes per il film e per Emilie Duquenne come migliore interpretazione femminile. Notizia inserita o aggiornata il 27/05/2007. Letta 1942 volte. |
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